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lunedì 21 settembre 2015

Scuola a Casteldaccia: intervista a Mirella Pezzini

Mirella Pezzini è stata preside della scuola media "Luigi Capuana" di Casteldaccia dal 1985 al 1989 e ha promosso il progetto "Analisi di un territorio", che ha portato alla realizzazione dell'omonimo libro, che CasteldacciaPuntoDoc allega in versione integrale. 
Di seguito la nostra intervista realizzata all'inizio del 2014. 

Gentile Preside Pezzini, 
rinnovo i miei ringraziamenti per la Sua disponibilità e collaborazione, e ne approfitto per farle tanti auguri di buon anno, da parte mia e di Nino Fricano, con cui porto avanti questo progetto CasteldacciaPuntoDoc. È davvero confortante, per noi, sapere che c'è gente che ha vissuto – per un motivo o per l'altro – nella nostra comunità e che ora è disposta a ricordare e raccontare. Raccontare, ecco. A noi piacerebbe "semplicemente" che lei ci raccontasse la sua esperienza a Casteldaccia, cosa è stato per Lei vivere e insegnare nella nostra cittadina, cosa ha scoperto, cosa ha vissuto e con che cosa si è confrontata. Cosa ha visto negli abitanti del nostro paese, soprattutto nei più giovani, quelli che – a fine anni '80 – stavano vivendo la loro prima adolescenza. 

Più nello specifico: (sono domande indicative, Lei può spaziare come e quanto vuole) 
1) Quanto è durata esattamente la sua esperienza di preside a Casteldaccia? 
2) Il suo progetto di analisi dei bisogni e di indagine sul contesto socio-culturale di una comunità – come atto propedeutico e integrativo all'attività di insegnante – se non ci sbagliamo, è stato ideato qui a Casteldaccia, per poi essere replicato più volte in diversi contesti della città di Palermo. Cosa l'ha spinta a pensare, elaborare e portare avanti un'operazione del genere? 
3) Sulla base delle indagini di "Analisi di un territorio", ma anche e soprattutto dai contatti umani che di certo avrà avuto in grande quantità, cosa ci può dire sul contesto sociale, culturale ed economico della Casteldaccia di quegli anni? Com'erano gli abitanti di Casteldaccia? Sia i ragazzi, sia ovviamente i membri delle loro famiglie. 
4) Che ambizioni avevano i giovani casteldaccesi? Quali erano le loro speranze, le loro idee di futuro, personale e collettivo? 
5) Quali particolarità, rispetto ad esempio alle sue successive esperienze cittadine, ha potuto riscontrare nelle persone che ha incontrato qui? 
- Cosa offriva l'ambiente in cui vivevano? 
- Quali rapporti ha avuto con le amministrazioni comunali, e più in generale con la politica e le istituzioni? Cosa ha notato – a livello di coinvolgimento della cosiddetta "società civile" o più semplicemente di interesse verso gli abitanti della comunità – negli amministratori locali? 
- Qual era la percezione comune di importanti problematiche quali povertà, disoccupazione, arretratezza socio-economica e culturale e clientelismo? 
- Qual era la percezione comune del fenomeno "mafia"? (solo pochi anni prima, nel 1982, c'era stata una tragica stagione di morti, per esempio, ma gravi fatti di sangue si sono registrati – a Casteldaccia ma anche a Bagheria, Altavilla, etc. - anche negli anni successivi). 
Speriamo di non toglierle troppo tempo e di non annoiarla. 


La risposta di Mirella Pezzini: 

Mi scuso se non le ho risposto per un po', ma tra feste e studio non è stato possibile portare avanti anche questo progetto, a cui ci dedichiamo solo per passione e nessun altro ritorno. 
L’anno scolastico 1985/86 è stato il mio primo anno in assoluto di Presidenza (a seguito di concorso) e fui felice di avere avuto quella sede in quanto , in estate, sposto (ancora oggi) la mia residenza in una villetta a mare in Contrada Stazzone, al confine tra Casteldaccia ed Altavilla. 
Conoscevo già pertanto il paese e i personaggi di quel tempo: Tomasello, padrone del pastificio, sindaco al mio arrivo, il successivo sindaco Bonomolo, l’architetto Mandalà, l’assessore Paterna, Valoroso il costruttore, Rosa Oreto del Comune e tanti altri. 
Il Comune è stato un interlocutore via via più partecipe, come si evince dalla stessa introduzione al libro dell’Assessore alla Pubblica Istruzione. 
Sono stata preside della scuola fino al 1989, quattro anni per me entusiasmanti , perché ho visto via via una partecipazione sempre più alta sia dei genitori che del territorio, un coinvolgimento eccezionale, riuscendo a realizzare tante attività significative e stimolanti: 
1) il viaggio di istruzione delle terze, sia nel 1988 che nel 1989, è stato finanziato dal comune integralmente per tutti gli alunni di terza (Toscana e Roma!!!), hanno partecipato anche alunni disabili e qualche genitore. 
2) il carnevale casteldaccese, tradizione sentita nel paese, ha visto la scuola interamente coinvolta in carri particolari, creati secondo il tema "Casteldaccia, come è, come la vorremmo" (pag. 180-183 del libro), sfilare con il Sindaco in testa. 
3) anche il Natale ha creato un altro particolare collegamento con il territorio, perché gli alunni hanno creato un magnifico PRESEPE con uno SCENARIO PARTICOLARE, LA PIAZZA DEL PAESE, con la famosa Torre del Corvo Duca di Salaparuta. 
4) la produzione più alta e significativa: il libro su Casteldaccia, costruito in due anni di ricerche e lavori degli alunni, con interviste ed indagini accurate di carattere socio-ambientale. Lavoro finalizzato alla crescita della coscienza civile di alunni e territorio in un momento storico in cui Casteldaccia era soprannominata uno degli angoli del triangolo della morte per mafia (vedi introduzione libro). 

Alla sua seconda domanda rispondo proprio con quanto scritto nell’introduzione. 
Ho scritto successivamente un libro nel 1992, casa editrice ILA Palma dal titolo Scuola-territorio ed antimafia con la prefazione di Sergio Mattarella. Attraverso l’indice del libro può capire che vi è l’approfondimento teorico del lavoro di analisi del territorio, oggetto del libro. 

Parlare di mafia, può bastare? Nel duemila? prima o dopo? In fondo non ha senso chiedersi «quando» la mafia sarà materia di studi esclusivamente storici. Ne ha di più chiedersi «come» sia possibile raggiungere questo traguardo. Sul «come», orientamenti, proposte, progetti organici potrebbero occupare agevolmente gli scaffali di un'intera biblioteca. Ciascuna ideologia, ciascuna cultura ha proprie ricette; ma su un punto gli orientamenti sembrano convergere: nella grande manovra contro la mafia la scuola ha un ruolo ed una responsabilità centrali.
Se la scuola saprà insegnare, con il leggere e lo scrivere, anche ad individuare i comportamenti della mafia, se attorno ad essi sarà capace di provocare non più adesioni (ancorché tacite) ma la civile capacità di dissociazione attiva, allora tutti gli intereventi della società politica sul nodo mafioso troveranno un terreno ricettivo.
In questa direzione sono già stati compiuti i primi, anche se insufficienti, passi.
La Regione siciliana ha approvato nel 1980 una legge, la n. 51, che fornisce strumenti e supporti alla scuola impegnata nella profilassi antimafia.
Per la prima volta dalla costituzione dello stato italiano, nel 1980 l'allora ministro della Pubblica istruzione, è venuto in Sicilia e si è rivolto ai dirigenti scolastici delle nove province affinché «l'antimafia» divenisse insegnamento d'obbligo.
Un obbligo che prima ancora che da una legge, da un suggerimento ministeriale, scaturisce dall'essere docenti, in Sicilia in particolar modo.
La scuola ha in sé le potenzialità per incidere, per erigere uno spartiacque privo di collegamenti tra società civile e società mafiosa.
Per capire però realmente la delicata funzione della scuola in tale ambito, bisogna prima concordare un comune codice linguistico e connotare a livello semantico che cosa si intenda per mafia e quale aspetto del fenomeno la scuola possa combattere.
La mafia è un'organizzazione criminale, sistematica e storicamente variabile, con una struttura segreta e familisticamente vincolata, che attraverso un rigido controllo del territorio esercita potere e persegue con ogni mezzo vantaggi ed illeciti arricchimenti.
E' questa una delle possibili definizioni del fenomeno. Ma, in questa sede, ai fini del presente lavoro, non importa tanto addentrarsi nell'esegesi comparata delle definizioni e delle origini storiche della mafia, quanto individuarne le caratteristiche che la rendono specifica rispetto ad ogni altra organizzazione di criminalità associata.
In quanto struttura segreta, uno dei valori cardine del fenomeno è l'omertà. Ma il silenzio e la negazione che favoreggiano non sono pretesi in esclusiva dagli aderenti al sodalizio criminale. La mafia impone una generale omertà e ne sanziona all'occorrenza la rottura.
In quanto esercente un potere sul territorio, la mafia lo regola e lo domina, in misura proporzionale alla presenza-assenza dello stato. Nell'assenza di regole certe, nel mancato soddisfacimento di bisogni elementari della gente, ovvero nel soddisfacimento discrezionale (ad libitum) di essi, si creano le premesse per interventi sostitutivi utilmente esplicati dalla mafia, anche in questo senso anti-stato.
In quanto struttura familisticamente vincolata, la mafia coltiva alcuni «valori»: il coraggio (ma di delinquere); l'onore, inteso come mantenimento della parola data (ma a prescindere dai contenuti del patto); il rispetto dei capi da parte dei subordinati, inteso come ubbidienza assoluta, acritica e passiva di fronte a qualunque tipo di ordine anche crudele ed inumano; la reciproca mutualità, l'assistenza cioè nelle situazioni di pericolo (solo che il pericolo deriva dall'essere fuorilegge); essa esalta persino il vincolo familiare, ma solo per rendere più coesa la «famiglia» come premessa alla forza rappresentata dalla tramatura tra le «famiglie».
E va ancora oltre: in quanto organizzazione sistematica e storicamente variabile della relazioni umane, in un determinato contesto sociale, la mafia sembra esprimere una forza arcaica di «diritto», proprio nel momento in cui disciplina in modo coercitivo le azioni degli uomini. In quanto esercente «diritto» la mafia amministra dunque una propria «giustizia» e questo esercizio giurisdizionale risalta proprio nella misura in cui l'unico legittimo titolare della giurisdizione - lo stato - appare al di sotto dei propri doveri-poteri.
L'insieme dei «segni» caratterizzanti la mafia si segnala per la sua capacità di ibridare valori morali generalmente riconosciuti ed accettati: rispetto, famiglia, coraggio, onore, amicizia, giustizia, mutualità... E' dentro i meccanismi più sottili di questa ibridazione che si individua l'ampio e fondamentale spazio del ruolo di una scuola depositaria dei principi e dei dettati della carta costituzionale.
Se è compito della magistratura investigare e combattere il fenomeno nel suo aspetto criminale, se è compito delle forze politiche e sociali, delle istituzioni incentivare lo sviluppo economico ed occupazionale del paese e sostenere la magistratura con linearità e fermezza, è compito della scuola e della famiglia, basi educative della futura società, fondare una nuova cultura, una nuova coscienza, un cittadino capace di comprendere criticamente il reale che lo circonda e di impegnarsi per migliorarlo, nel rispetto delle leggi e della libertà, propria e di tutti.
Dal 1980 l'opinione pubblica, svegliata dal suo «sonno gattopardesco» dalla serie feroce di delitti che si susseguivano senza posa e contro mafiosi e contro rappresentanti dello stato e contro cittadini onesti, cominciò a scuotersi. Ci fu una presa di coscienza collettiva.
Oggi nessuno ha più l'impudenza di sostenere che la mafia in realtà non esiste, nessuno più assume consapevolmente, in pubblico, un atteggiamento connotabile come mafioso e ciascuno prende, almeno apparentemente, le distanze da tutti coloro che «odorano» di mafia.
È una significativa inversione comportamentale ma non ci si può contentare di questo.
A scuola oggi (ricorrendo ai finanziamenti regionali o senza di essi) si parla di mafia, si studiano le origini storiche del fenomeno, si approfondisce la conoscenza dei fatti di cronaca attuale, dei percorsi legislativi, del funzionamento degli appalti, degli esiti letali della droga.
Tutto ciò era impensabile dieci anni fa nella scuola nazionale e siciliana in particolare, ma ciò non basta, non è sufficiente. Innanzitutto è ancora molto bassa la percentuale delle scuole che svolgono questo lavoro; in secondo luogo non può essere esaustivo e soddisfacente trattare l'argomento mafia, trasmettendo tutta una serie di nozioni e contenuti, indubbiamente necessari, senza però permeare tutta la programmazione dell'obiettivo cardine della scuola italiana: la formazione dell'uomo e del cittadino.
Sono stati gli educatori più impegnati nella didattica antimafia a rendersi conto che gli interventi circoscritti e solo contenutistici rimangono epidermici; servono a stimolare l'attenzione e la riflessione degli studenti, ma non riescono a modificare comportamenti e mentalità.
La conferenza, il film, la ricerca storica sul fenomeno «mafia», la conduzione di una unità didattica contenutistica potrà avere come obiettivo quello che è il primo gradino nella tassonomia di Bloom: la conoscenza.
Questo elemento, però, da solo non basta, il processo formativo sta nel modo con cui il docente organizza le esperienze culturali, per farle poi ricostruire intellettualmente; si tratta dell'operatività che non è manualità, del metodo problematico o ancora, usando un'altra espressione, della scuola-laboratorio.
La divaricazione tra istruzione ed educazione non ha senso: purtroppo esiste ancora e non solo nella impostazione professionale di molti operatori ma addirittura nella struttura stessa della scuola, come possiamo constatare ancora oggi negli istituti secondari di 2° grado. È necessario, cioè, programmare non solo contenuti da trasmettere, ma obiettivi, metodologie, strategie di apprendimento e relative verifiche. Tutte le materie, ognuna col proprio specifico disciplinare e metodologico, dovranno concorrere al perseguimento degli obiettivi trasversali ed interdisciplinari di ogni ordine e gradi di scuola:
1) educare al comunicare;
2) educare al conoscere scientifico;
3) educare all'operare nel sociale;
4) educare a vivere secondo i valori costituzionali;
«Occorre rilanciare l'iniziativa democratica nella scuola e perseguire il rinnovamento delle metodologie didattiche puntando allo sviluppo della coscienza critica degli allievi... Il fenomeno mafia non può essere compreso isolatamente, ma solo attraverso la comprensione della società siciliana nel suo specifico e nei suoi rapporti con la realtà italiana e del mondo. Per combattere la mafia è necessario promuovere nei giovani la conoscenza della realtà in cui essi vivono, sotto l'aspetto storico, economico, sociologico (...).
La scuola è il centro culturale del territorio su cui insiste e deve coinvolgere e stimolare il territorio. Ma di esso deve conoscere i tratti, le caratteristiche, le possibilità, l'intera struttura».
Anche se il fenomeno mafioso non può e non deve considerarsi una peculiarità solo siciliana, la programmazione di una scuola fiorentina o veneziana. La realizzazione però di una approfondita e mirata «analisi del territorio» (quale viene suggerita dal presente lavoro), sarà un itinerario didattico ed educativo valido sempre e dovunque. Certo si dovranno diversificare e valorizzare alcuni interventi piuttosto che altri, rendendoli adatti a perseguire in ogni ambiente un vero apprendimento. [...] La scuola non potrà certo mutare le assenze storiche dello stato, né modificare l'incapacità di una classe dirigente che non ha saputo approfittare di alcuni appuntamenti fondamentali offerti dalla storia alla Sicilia; la scuola potrà, però, forgiare l'intellettuale, l'uomo politico, il sindacalista, il cittadino di domani, capace di riscattare e rivalorizzare il proprio paese.
La scuola non potrà creare posti di lavoro o eliminare l'arretratezza, ma potrà indirettamente contribuire allo sviluppo generale del paese, orientando in modo corretto e coerente l'alunno, rendendolo consapevole di se stesso e delle proprie attitudini, stimolando in lui una flessibile capacità di adattamento ed una inflessibile onestà di sentimenti, aiutandolo a leggere criticamente il reale attorno a lui ed insegnandogli contemporaneamente ad operare costruttivamente per sé e per gli altri.
Le connivenze o alleanze politiche ed economiche con la mafia sfuggono pure al controllo della magistratura, figuriamoci a quello della scuola.
Gli operatori scolastici potranno e dovranno invece moderare gli eccessi di ogni genere, educando all'equilibrio, alla difficile arte della tolleranza (da non confondere con la passività), alla giusta ambizione, che non è arrivismo.
Quando si auspicano situazioni di cambiamento sociale o si desidera pianificare modifiche nella realtà o si tenta di organizzare modelli culturali e sociali diversi, bisogna partire innanzitutto dal proprio cambiamento, bisogna prioritariamente autoanalizzarsi ed esaminare i propri sistemi di valore, gli atteggiamenti ed i comportamenti che si esprimono nel quotidiano.
La scuola non può combattere la mafia se non si libera essa stessa da una serie di modelli negativi di comportamento che vanno dalla trasmissione passiva, teorica ed acritica dei contenuti a forme deleterie di autoritarismo, dall'incapacità di lavorare in équipe a veri e propri atteggiamenti clientelari e/o di prevaricazione.
La scuola e la struttura istituzionale da cui dipende, devono in massima parte a questi fattori la loro disfunzione ed il loro immobilismo.
Bisogna dunque che gli operatori scolastici siano innanzitutto disponibili al cambiamento, a mettere cioè in crisi se stessi per raggiungere poi un nuovo stato di equilibrio ed una più alta capacità sociale e professionale; disponibili anche a lottare per instaurare nella scuola, oltre che nelle proprie ore di lezione, un sistema educativo aperto, collegiale, operativo e produttivo nel rispetto critico delle leggi e delle istituzioni.
Bisognerà prioritariamente analizzare la propria concezione della mafia per comprendere a quale teoria si fa consapevole o inconsapevole riferimento e quali conseguenze discendono dalla propria impostazione del problema.
C'è chi infatti parte dal presupposto che l'essere mafioso è una caratteristica intrinseca del siciliano, che viene condannato pertanto alla impossibilità di agire e migliorarsi. È una impostazione biologico-genetica che si trasforma in razzista e da cui discende la convinzione che la mafia si può combattere solo attraverso la repressione e l'instaurazione dello stato di emergenza.
Teoria che alla fine si rivela contraddittoria, dato che vi è da un lato una mafia di origini biologico-strutturali e pertanto indistruttibile e dall'altro una repressione senza fine e pertanto inutile. Tra l'altro, se a sposare questa teoria è un non siciliano, questi penserà di essere immune dal «virus» e vedrà tutto ciò che è siciliano come portatore di valori negativi.
Vi è poi chi assimila la mafia alla devianza, alla criminalità organizzata in genere; con questa impostazione si perdono di vista non solo le peculiarità storico-culturali del fenomeno ma anche tutti quei risvolti fondamentali di mentalità e comportamenti che caratterizzano e diversificano la mafia e su cui si deve agire per la sua eliminazione. Anche questa teoria diventa spesso un alibi per il «non fare»: «la criminalità è un fatto che esula dalle competenze della scuola e pertanto...», oppure: «non vi è uno specifico mafioso, pertanto basta fare scuola bene per perseguire l'obiettivo della formazione di una coscienza civile negli alunni». Ma che significa «fare scuola bene»? Talvolta dietro questa affermazione si nasconde il pericolo di immobilità del sistema e quindi ancora una volta del «non fare».
[...] è importante comprendere che avere un'idea comporterà poi atteggiamenti diversi e nel proprio modo di essere e nel proprio modo di insegnare e che quindi bisogna autoanalizzarsi per esserne consapevoli.[1]

Alle domande 3, 4 e 5 rispondo che i ragazzi erano splendidi, educati e abbastanza studiosi. C'era il rispetto per la scuola e per gli adulti. Tale rispetto per la scuola era anche negli adulti, tuttavia un'analisi più approfondita sugli alunni la trovi nelle pagine 70-75 del libro, a seguito di interviste appositamente predisposte. Vi sono poi, nelle pagine 123- 137, una serie di Indagini sugli adulti e le loro abitudini. Non sembrava di vivere in un paese ad alta densità mafiosa, non so dire se era solo apparenza. Il clima sembrava sereno e fattivo. 

Qual era la percezione comune di importanti problematiche quali povertà, disoccupazione, arretratezza socio-economica e culturale e clientelismo? 
A questa domanda rispondo che non vi era consapevolezza di arretratezza socio/culturale, il periodo, economicamente, era buono, il paese ( come credo ancora oggi, nonostante la crisi) si presentava "ricco", tranne naturalmente qualche situazione. 

La scuola ha contribuito molto al dibattito sulla mafia ed in particolare ricordo la figura della prof. Rosa Maria Pinello (morta qualche anno dopo), che, come la scrivente, faceva della lotta per una cittadinanza consapevole il suo vessillo. 

Spero di esserle stata utile; in estate, se vorrà, sarà più facile poterci incontrare e scambiare opinioni. Anche Gabriella Gioia (di Casteldaccia) mi conosce e mi ha contattata, ma non è stato ancora possibile incontrarci. 

Cordialmente 
Mirella Pezzini 








[1] Mirella Pezzini, Scuola-territorio ed antimafia, Palermo, ILA Palma, 1992, pp. 13-20.

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